Nei giorni scorsi, 600 docenti universitari hanno scritto una lettera per lamentare il degrado del linguaggio degli studenti universitari, che non sanno più scrivere. Un problema non da poco nel nostro paese, dove i Millennials leggono poco e come tipo di scrittura conoscono solo quello dei social network.
Ne abbiamo parlato con il prof. Alberto Contri, presidente della fondazione Pubblicità Progresso.
Prof. Contri, il tema dell’ignoranza dei nostri studenti lei lo conosce bene, per averlo trattato nella Lectio Magistralis in occasione del conferimento da parte dell’Università IULM nel 2010 della Laurea Honoris Causa in Relazioni pubbliche delle imprese e delle istituzioni. Lo vediamo anche trattato in diversi capitoli del suo ultimo saggio “Mc Luhan non abita più qui?”. Come mai questa attenzione a questa tematica da parte di un professionista della comunicazione, oggi docente universitario?
La spiegazione la si trova immediatamente nel sottotitolo e nella foto di copertina del saggio. “I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale” dice già che il contesto in cui ci troviamo ad operare non deve fare solo i conti con le conseguenze del Big Bang del web, ma con una problematica modificazione nei comportamenti di cittadini, utenti, consumatori: l’ossimoro della “costante attenzione parziale” è ben rappresentato dalla foto in cui la neo-dea Khalì usa le sue sei braccia per dedicarsi contemporaneamente a sei attività diverse, come usare il cellulare, l’i-Pad, il mouse del computer, il telecomando della tv e magari anche il telecomando di una playstation.
Dopo quarant’anni di professione come pubblicitario, ho cominciato ad insegnare Comunicazione sociale in università, e mi sono ben presto reso conto che a forza di vivere di frammenti, come fanno sempre più spesso, gli studenti collezionano frammenti, e al momento di fare una sintesi, interloquire in un esame, scrivere una tesi restituiscono altrettanti frammenti.
Esprimendo in sostanza un pensiero destrutturato, che si traduce in un linguaggio smozzicato e frammentato. Ben venga quindi la denuncia dei seicento docenti. Io lo sto sostenendo da molti anni, ma come vox clamans in deserto, prendendomi spesso i rimbrotti degli entusiasti delle magnifiche sorti e progressive della tecnologia.
Eppure già Ludwig Wittgenstein aveva detto: “Dato che il linguaggio è il mezzo con cui l’io si relaziona con la realtà, se è corrotto il tuo linguaggio, significa che è corrotto il tuo rapporto con la realtà”. Una analogia che descrive alla perfezione la denuncia dei 600 professori. Gli studenti e i ragazzi di oggi sono perennemente connessi, ma il loro linguaggio povero e frammentato dimostra che invece sono fuori dal mondo, e che vivono semmai in una bolla virtuale.
Fanno la fila per comprare l’ultimo modello di smartphone, per poi scambiarsi frammenti di frasi brevissime tramite Whatsapp o Twitter, senza mai concentrarsi su alcun argomento per più di pochi minuti.
Quindi lei rimpiange i tempi del buon selvaggio di Rousseau?
Ma neanche per idea. Le innovazioni rese possibili da quando, il 6 agosto del 1991, Tim Berners Lee mise sulla rete il primo sito web – grazie anche al rivoluzionario meccanismo dell’interattività, hanno modificato in maniera straordinaria il modo di rapportarsi tra le persone, il modo di lavorare, studiare, divertirsi e fruire dei media. I nostri figli e ancor più i nostri nipoti dovranno inoltre vivere sempre di più immersi nell’Internet delle cose.
Ma la domanda che comincia ad emergere da ricerche e studi fatti in tutto il mondo, soprattutto in campo neurologico e sociologico, è: saranno schiavi o padroni delle innovazioni?
Cosa c’entra tutto questo con i media e la pubblicità?
C’entra moltissimo, perché imprese, agenzie, media, hanno a che fare con un pubblico sempre più frazionato e segmentato, che vive di frammenti e per questo è particolarmente disattento. Il presidente della società Makno, Mario Abis, ha ricordato tempo fa sul Corriere che c’è una bella differenza tra uno che guarda un programma tv e nel frattempo guarda qualcosa sul proprio tablet, e la stessa persona che guardando il programma twitta qualcosa in merito, o partecipa addirittura ad un sondaggio lanciato dal programma. Nel primo caso l’effetto si dimezza, mentre nel secondo si raddoppia.
Recentemente Patrick Goldstein, critico del Los Angeles Times, ha scritto: “Oggi siamo una nazione di nicchie. Esistono ancora film blockbuster, programmi televisivi di successo, e cd che vendono bene, ma sono sempre meno gli esempi di eventi che catturano lo spirito della cultura popolare condivisa”. Ha rincarato la dose Seth Godin, uno dei più acuti guru del marketing di questi tempi, parlando dei pubblicitari: “Dipendono dalla massa, ma la massa non c’è più”.
Torniamo al Big Bang del web. Lei sostiene che alcuni protagonisti del mondo della comunicazione non hanno saputo reagire in modo appropriato, rifugiandosi nelle rendite di posizione, e ora sono in crisi o almeno in grande confusione.
Ho vissuto in prima persona la questione, e su vari fronti. Per molto tempo molte aziende hanno messo su internet in una pagina statica le pagine delle loro brochure, ignorando che la vera grande rivoluzione era data dall’interattività. Non è poi un mistero per nessuno che i palinsesti della tv generalista sono gli stessi da moltissimi anni. Cito il più autorevole critico televisivo, Aldo Grasso: “Una delle caratteristiche più forti della nostra tv generalista è l’attitudine a ripetere il già visto, a ripresentare un’offerta triviale, specchio di un Paese che fatica a rinnovarsi”.
Un altro errore che gli editori televisivi e della carta stampata continuano a fare ancora oggi è quello di considerare le attività sul web come attività utili soprattutto ad aumentare o consolidare il pubblico della tv e dei giornali: quando sono in larga parte pubblici diversi, che richiedono approcci diversi anche per via dell’età.
Per quanto riguarda le agenzie, l’errore principale che hanno commesso è stato quello di concentrarsi soprattutto sull’acquisto mezzi, che è l’attività più redditizia, dimenticando il vero asset di una agenzia pubblicitaria degna di questo nome, che è il servizio completo come lo si faceva una volta. Quello che Marc Pritchard, Global Brand Manager della P&G (ora anche presidente dell’ANA, l’UPA americana) torna a chiedere a gran voce. “Che ce ne facciamo di una buona pianificazione di un brutta campagna?” ha detto. E ancora: “Troppe agenzie digitali si basano su competenze soprattutto tecniche. La nostra aspettativa, nel corso del tempo, è che le agenzie nostre partner, quelle che abbiamo scelto, siano in grado di darci in forma integrata tutto il carico di lavoro relativo alla comunicazione, alla creatività, alla produzione, alla diffusione dei messaggi”. Questo in sintesi. Ovviamente nel saggio è tutto molto più dettagliato.
Lei non denuncia solo errori, ma propone anche soluzioni…
Alberto Contri. Innanzitutto cerco di richiamare l’attenzione che stiamo vivendo un momento storico davvero particolare, molto complesso, e non solo per i problemi politici ed economici che riguardano tutto il pianeta. Nessuno ha mai riflettuto sul fatto che è come se vivessimo sempre più schiacciati da una molla le cui spire hanno cominciato a comprimersi molto lentamente almeno 60.000 anni fa.
Vale a dire?
Possiamo affermare che il primo grande breaktrough (rottura evolutiva) nella storia dell’uomo risale a quel lontano periodo, in cui gli uomini di Cro-Magnon (i primi uomini molto simili a noi) cominciarono a parlare tra loro, con versi ed espressioni facciali che non erano molto diverse da quelle dei Minions…C’è da rimanere stupiti nello scoprire che il secondo grande breaktrough, la nascita della scrittura, si sia verificato grosso modo solo 50.000 anni dopo, intorno al 1500 a.C., in occasione della nascita della scrittura, ad opera di Egizi, Sumeri, Cinesi, Fenici.
Dovranno ancora passare altri 3000 anni per arrivare al terzo breaktrough, l’invenzione della stampa a caratteri mobili fusi in piombo ad opera di Gutembergh, nel 1445. Passeranno ancora altri 400 anni per arrivare ad un periodo in cui nel campo della comunicazione e non solo c’è poi stata quasi una importante invenzione all’anno: quotidiani, fotografia, cinema, telefonia, telegrafia, radio, televisione, computer e digitalizzazione dei segnali, per arrivare al Big Bang del web negli anni novanta.
In questo momento ci sono 1.145.000.000 siti internet attivi, sono state spedite oggi 139 miliardi e-mail, visti 3 miliardi e mezzo di video su Youtube, consumati oltre 2 miliardi di GB per il traffico internet. Solo in questo momento. Chiunque può controllare la situazione dell’attimo in cui sta leggendo, consultando i contatori di www.livestats.com.
Cosa significa tutto questo?
Significa che chi intende comunicare, oggi ha a che fare con un utente, un cittadino, un consumatore che sia, preso in un micidiale paradosso: oltre che distratto da molte attività in contemporanea (ecco l’era della “costante attenzione parziale”) è soverchiato da una enorme sovrabbondanza di informazioni (quello che gli americani chiamano information overload), mentre ha sempre meno tempo a disposizione per guardarle o anche semplicemente stabilire delle priorità di lettura.
Per questo resto stupito di fronte a certi portali di editori generalisti (quelli verticali sono un’altra cosa) che richiedono uno scroll di due metri lineari per esseri visti, e che oltretutto sono infarciti di video curiosi, scollacciati o divertenti che si trovano però dovunque, e quindi sono una mera commodity: puro rumore di fondo, alla fine. In più c’è il problema che i giovani e i giovani adulti non si informano più, né sulla carta né on-line, se non attraverso le breaking news dei provider telefonici.
Tutti sono interessati al cosiddetto “virale”, dimenticando che un virus va per sua natura dove vuole lui e dove può attecchire, ed è largamente incontrollabile. Inoltre, grazie all’interattività, il nostro utente è diventato un interlocutore attivo, esigente, che in molti casi completa un processo di acquisto solo dopo essersi informato a lungo sulla rete.
Avviene inoltre, di conseguenza, che la reputazione delle imprese e dei brand dipenda in misura crescente da ciò che si dice di loro sulla rete, dal cosiddetto buzz, che ricorda il rumore dello sciame delle api. Anche questo sempre meno facilmente controllabile, a meno che…
A meno che?
Qui si entra nella tematica dei Big Data, della privacy e dell’algoritmo. Faccio un esempio: spargere a pioggia nei pre-roll di Youtube uno spot per un’automobile, a molti risulterà fastidioso, perché non interessati. Ma se riuscirò a pianificarlo solo sui video visti dagli utenti potenzialmente interessati all’acquisto di un’auto, non solo non sarà considerato fastidioso, ma addirittura utile. La questione è come faccio a sapere chi sono e quali sono le loro abitudini mediatiche…
Bel problema. Ma lei cosa suggerisce?
La soluzione che propongo è semplice e rivoluzionaria ad un tempo. Nel momento della estrema frammentazione, della grande confusione, del pericoloso aumento dell’entropia di un sistema che sta avvicinandosi pericolosamente al suo livello massimo, non c’è, soprattutto per le imprese e le agenzie di pubblicità, che ritornare ad un sano back-to-basics, come peraltro ha richiesto Marc Pritchard. Nell’era del broadcasting, ancora vivo in buona parte, la comunicazione è estremamente efficiente, potremmo chiamarla l’era della comunicazione da uno a tutti: un solo spot, come nel caso del Superbowl, raggiunge istantaneamente con una comunicazione univoca 100 milioni di persone. Molto costoso ma estremamente efficiente.
Oggi stiamo virando verso la comunicazione da tutti a tutti, con un diagramma che ricorda quello dell’esplosione atomica. Un atomo ne sollecita alcuni, che ne sollecitano altri, che ne sollecitano altri ancora…fino a saturare il sistema intero. Si comincia con il comunicare ad alcuni cluster di popolazione, augurandoci che la diffondano ad altri, i quali la diffondano ad altri ancora, eccetera (è il meccanismo base di qualsiasi virale).
Peccato che in questo “trasferimento” la nostra comunicazione rischi di essere modificata, trasformata, arricchita e ridicolizzata. Come si fa ad essere sicuri che quel poco che rimarrà quando sarà arrivata a tutti quelli che vogliamo, conservi almeno i concetti base che ci interessano? Non vedo nessun’altra soluzione che essere capaci di costruire un nucleo talmente forte da essere in grado di arrivare indenne alla fine del processo.
Il che vuol dire aver saputo individuare un insight potente, che corrisponda alle lontane regole della famosa Unique Selling Proposition di antica memoria, troppo presto dimenticata come se fosse una moda, e che negli anni è stata poi chiamata in tanti modi diversi. Ricordando che l’esecuzione o i supporti tecnologici sono solo un veicolo, altrimenti si torna a ragionare come ai tempi in cui si credeva di essere up-to-date solo per aver messo su internet la pagina statica della propria brochure, non è mica tanto diverso.
Nel saggio ci sono molte applicazioni pratiche, anche.
Il mio sforzo è stato quello di osservare il mondo della comunicazione con uno sguardo olistico e interdisciplinare, cercando di comprendere i segnali deboli di cambiamento e di scovare chi ha saputo riconoscerli e sfruttarli. Così, sia per la comunicazione commerciale che sociale, ho riportato una ventina di case-history di grandi, medie e piccole aziende di tutto il mondo, che hanno capito l’antifona, e hanno ottenuto tutte grande successo con l’impiego dei media più diversi, e anche con gli investimenti più diversi, dimostrando che quello che conta è un’idea coinvolgente, con un nucleo talmente forte, da saper viaggiare con le proprie gambe.
Questo interessante rosario di campagne e di progetti di comunicazione dimostra anche un’altra cosa: che è finita l’epoca delle differenze tra Above the line e Below the line. Il primun movens di una campagna può ancora essere uno spot, ma può anche essere un flash-mob, una web-series, o una promozione su un sito. Non ci sono più schemi. Per governare un sistema senza schemi, che sono facilmente applicabili, alla fine, occorre una concentrazione di pensiero e una capacità di progettualità che si è perduta nell’inseguimento di mode del momento o dell’ultima trovata di pianificazione digitale.
Lei cita un assai interessante esempio di Google, in proposito.
Si, e dico anche che mi sarebbe piaciuto se a proporre l’esperimento fosse stata un’agenzia di pubblicità…Cosa hanno fatto? Sono andati a richiamare in servizio i famosi direttori creativi americani degli anni sessanta, quelli che fecero le storiche campagne per Coca Cola o Hertz (oggi tutti ultra-ottantenni), gli hanno messo in mano i-Pad e smartphone, e hanno chiesto loro di inventare delle storie adatte ad essere diffuse con questi mezzi (www.projectrebrief.com).
Gli arzilli vecchietti, se così si può dire, hanno creato campagne estremamente coerenti con i valori e le missioni dei brand, ma pensate per essere veicolate tramite le nuove tecnologie. Dimostrando che il pensiero è e resta analogico, mentre digitali sono le applicazioni, che sono e rimangono un supporto. Un dato che può interessare, è che accanto a tutte le case-history citate compare un QR Code, così che puntandovi sopra il proprio smartphone è possibile vedere all’istante le campagne e i video in questione. Alla fine del saggio c’è un corposo glossario dei termini del web pubblicato per gentile concessione dello IAB.
In conclusione?
Preferisco rimandare alla lettura di alcune righe dell’ultimo capitolo: “Le nuove opportunità offerte dai media digitali ci pongono davanti a un bivio: trasformare consumatori e cittadini in numeri di un data-base, in oggetti di comunicazioni assillanti e invasive, con un linguaggio primordiale sempre più schematico e impoverito, oppure in interlocutori attivi delle imprese, dei media, della società, sempre più dotati di senso critico e padroni della tecnologia a loro disposizione.
Se l’obiettivo del marketing smette di essere la mera vendita per puntare più che a una customer satisfaction a una human satisfaction (che significa benessere integrale, per dirla con Andrea Farinet), diventa sempre più necessario che le imprese, le agenzie di pubblicità e i media si impegnino nell’applicare seriamente una reale responsabilità sociale, segnatamente nell’accezione di Francesco Perrini, direttore della CSR Unit della Bocconi: “è necessario considerare la CSR non come uno sforzo addizionale, bensì come un comportamento legato alla normale gestione dell’impresa”.
In caso contrario, il marketing, la pubblicità e il business finiranno per divorare se stessi, mentre algoritmi gestiti da pochi governeranno il mondo come un nuovo opprimente Grande Fratello.
E l’Armageddon sarà davvero alle porte.