Professor Contri, Lei è autore del libro McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della costante attenzione parziale, pubblicato per i tipi di Bollati Boringhieri: sin dal titolo, Lei evidenzia il deficit di attenzione che caratterizza la nostra società.
McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell'era della costante attenzione parziale Alberto ContriQuando esisteva un solo canale TV, a fine anni ’50, si era soliti dire “lo ha detto la tv” come se fosse l’unica verità possibile, perché era veicolata da un mezzo di comunicazione unico nel suo genere e molto invasivo. Per il quale il famoso sociologo dei media Marshall Mc Luhan aveva coniato l’aforisma “il mezzo è il messaggio”. Anche con la crescita dei canali avvenuta negli anni a seguire, il modello di comunicazione era il broadcasting, vale a dire un modello “da uno a tutti”. Costoso ma molto efficiente ed efficace. Un modello che è coinciso con gli anni d’oro della pubblicità, costruita soprattutto a base di spot.
Il Web ha rivoluzionato le nostre vite imponendosi con un paradigma nel quale la comunicazione procede «da tutti a tutti»: quali le conseguenze per i media tradizionali?
Occorre fermarsi un momento a riflettere sugli effetti dell’ultimo grande Big Bang della storia della comunicazione, l’ultimo grande breaktrough, che potremmo tradurre con “rottura evolutiva”. Anzi, per capire meglio quale momento stiamo vivendo oggi nella storia della comunicazione tra gli uomini, è opportuno chiedersi quali siano stati i pochi ma importantissimi breaktrough che si sono verificati nell’epopea dell’uomo.
La prima grande rivoluzione è sicuramente costituita dalla nascita del linguaggio parlato, il che avvenne circa nel 50.000 a.C.: si trattava di un linguaggio molto semplice, basato su espressioni facciali e suoni gutturali.
Bisognerà attendere 50.000 anni per assistere alla nascita della scrittura, intorno al 1500 a.C. (Fenici, Egizi, Cinesi), che inizialmente era la trasposizione del linguaggio parlato, e che si arricchiva man mano che i popoli si incontravano per i loro commerci. Ci vorrà ancora un altro balzo, questa volta di 3000 anni, per arrivare al 1455 d.C., anno in cui Gutenberg inventa la stampa a caratteri mobili in piombo: un evento di enorme portata culturale, perché sdoganava la diffusione della cultura dal presidio unico dei chierici, grazie alla possibilità di stampare lo stesso testo in molte copie. Ancora un balzo più piccolo (ma sempre di un bel po’ di anni, questa volta 400, per arrivare al 1840, anno dal quale inizia un periodo di ininterrotte invenzioni e innovazioni: quotidiani a grande tiratura, telegrafo, telefono, fotografia, cinema, radio, tubo catodico, televisione, digitalizzazione dei segnali, personal computer). Fino ad arrivare al Big Bang del web il 6 agosto del 1991, quando il ricercatore Tim Berners Lee mise in rete il primo sito web disponibile a tutti (prima il web era riservato ad applicazioni scientifiche e militari).
L’esplosione del web ha reso possibile un importante cambio di paradigma nel campo della comunicazione, che è passata dalla modalità “da uno a tutti” a quella “da tutti a tutti”. Questo nuovo paradigma contiene due importanti caratteristiche: l’interattività e la mobilità (con annessa geolocalizzazione).
La possibilità di interagire con le fonti della comunicazione ha dato nuove grandi opportunità agli utenti/consumatori. Oggi un numero sempre crescente di atti di acquisto viene compiuto solo dopo che il consumatore abbia visitato uno o più siti, tipico è il caso della scelta e dell’acquisto di un’auto. Ma vale anche per ristoranti, alberghi, e per catene di vendita on-line come Amazon. La prima a sfruttare su larga scala l’interattività fu la Dell Computer, che offrì come servizio agli utenti l’opportunità di costruirsi virtualmente il computer adatto alle proprie esigenze, evitando di dover tenere costosi magazzini con ogni tipo di macchina. Una volta che l’utente, pure guidato nelle sue scelte tecniche, aveva identificato il prodotto che gli serviva, in quindici giorni lo riceveva a casa propria. Con questo colpo di genio l’azienda aveva ribaltato sui clienti un compito che prima toccava a lei, e che comportava inoltre un enorme dispendio in scorte e in macchine invendute. La possibilità poi di informarsi e comunicare in mobilità ha comportato grandi modificazioni nelle abitudini di utenti e consumatori, facendo diventare negli ultimi tempi lo smartphone il terminale per eccellenza per una articolata serie di attività.
Si assiste ormai all’eclissi del generalismo: come possono i media tradizionali rispondere alle sfide della contemporaneità?
Finisce l’era del generalismo televisivo. Sono sempre meno i programmi che tengono incollati al video molti utenti contemporaneamente, mentre sempre più persone si costruiscono il proprio palinsesto: si può dire che il peak time è diventato my time. La TV generalista classica è sempre più appannaggio delle classi over 50, mentre tutti gli altri utenti si spalmano su una quantità di offerte diverse. Un problema da considerare, però, è che sui social network gli utenti finiscono per aggregarsi per caratteristiche omofile, vale a dire formando gruppi che la pensano allo stesso modo o hanno gusti analoghi: il che potrebbe costituire una nuova forma di generalismo.
Nel mondo ci sono già da molto tempo esempi di broadcaster che integrano la programmazione televisiva con sondaggi e giochi che continuano su Twitter e altri social network. La pubblicità ha preso ad esempio a sfruttare l’applicazione Shazam per far interagire gli utenti dallo smartphone, e via di questo passo.
Potremmo dire che l’integrazione dei vari mezzi consente ai mezzi tradizionali di continuare ad esistere.
Quale futuro per la comunicazione?
Un futuro sempre più complesso da gestire, a causa delle criticità che si portano con sé le innovazioni. La moltiplicazione esponenziale dei canali e delle fonti comporta un inevitabile sovraccarico di informazioni.
Il che ci fa vivere un imprevisto paradosso: da un lato aumentano le opzioni informative e di intrattenimento, dall’altro diminuisce il tempo per fruirle.
Così si reagisce cercando di diventare multitasking, facendo molte cose contemporaneamente o spostando molto rapidamente l’attenzione da un compito all’altro. Il che è un errore irrimediabile, perché il cervello umano non è fatto per essere multitasking, e ogni volta che si sposta l’attenzione da un compito all’altro il cervello subisce un costo cognitivo: si finisce per collezionare frammenti, ritenendo che la velocità possa supplire all’approfondimento.
Ma non è così: se si collezionano frammenti, alla fine si rielaborano frammenti. Lo si scopre al momento degli esami e delle tesi, quando un numero crescente di studenti rivela un linguaggio smozzicato e frammentato.
Già a inizio del ‘900 il grande linguista Wittgenstein aveva detto: “Poiché il linguaggio è il mezzo con cui l’io si relaziona con la realtà, se è corrotto il tuo linguaggio, significa che è corrotto il tuo rapporto con la realtà”.
Ergo, chi crede di vivere la realtà perché è continuamente connesso, di fatto ne è fuori!
Non a caso grandi imprenditori come Richard Branson, CEO di Virgin, stanno introducendo il digital detox, un giorno alla settimana in cui i dipendenti devono spegnere ogni device elettronico per evitare di precipitare nella Internet Addiction Syndrome.
Per quanto riguarda la comunicazione pubblicitaria, più aumenta la frammentazione e la segmentazione, più diventa importante saper costruire storie capaci di attrarre l’attenzione totale del consumatore almeno per un po’. Il che è possibile solo tornando ai vecchi metodi analogici di ricerca di quell’insight capace di far vibrare le corde della mente e del cuore dei destinatari.
Il più bell’esempio in merito lo ha fornito Google con il progetto Re:brief. Ha richiamato in servizio i famosi cerativi americani che negli anni ’60 avevano fatto le grandi campagne storiche di Coca Cola, Avis, Volkswagen ecc, hanno messo loro in mano i-Pad e i-Phone, e hanno chiesto loro di sviluppare delle campagne capaci di sfruttare le opportunità dei nuovi mezzi di comunicazione. Gli arzilli ottantenni si sono messi al lavoro, e hanno progettato delle campagne che hanno entusiasmato i giovani manager di quelle imprese. Nel video che si trova sul sito del progetto, il giovane direttore marketing di Google (un indiano trentenne…) afferma: “Negli ultimi anni ci siamo concentrati troppo sulla tecnologia. Dobbiamo tornare a fare campagne sulle storie delle persone”.
Il progetto di Google è la più bella dimostrazione che la mente era, è, e resterà analogica, mentre digitali sono le applicazioni.