Viviamo anni molto complicati, per non dire difficili. Non è più tempo di grandi sogni, ma di paure. Incombe il terrorismo, il riscaldamento globale, l’instabilità politica. Ad una ad una si affievoliscono le certezze consolidate, si appannano metodi sicuri che se ben applicati garantivano il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Sono già passati 26 anni da quando Tim Berners Lee, il 6 agosto 1991, mise online il primo sito web, eppure continuiamo a chiamare ancora “nuovi media” le invenzioni che da allora si susseguono sulla rete. Un numero crescente di ragazzi, giovani, adulti, stanno incollati, come stregati, al loro ultimo smartphone. Più che dal contenuto, lo spettacolo sembra essere costituito dalla tecnologia. Nel momento in cui scrivo, il sito www.internetlivestats.com ci informa che sono stati venduti oggi 4 milioni di smartphone, sono stati visti su Youtube quasi 6 miliardi di video, sono state spedite 230 miliardi di email. Ci sono quasi 2 miliardi di user attivi di Facebook e 1,150 miliardi di siti internet attivi che generano un consumo di oltre 50.000 GB al secondo. Sono cifre da capogiro. Sono passati circa 60.000 anni da quando l’uomo di Cro-Magnon (il primo ad essere molto simile a noi) ha cominciato a parlare. La comparsa del linguaggio orale può essere considerato il primo grande breaktrough (rottura evolutiva) avvenuto nella storia della comunicazione tra uomini. Ma ci sono voluti ben 50.000 anni circa prima che si potesse assistere a un nuovo grande breaktrough, la nascita della scrittura, ad opera dei Sumeri, dei Cinesi e degli Egizi, verso la fine del 1500 a.C., quando fu codificato anche l’alfabeto fenicio. Dovranno passare altri 3.000 anni per arrivare al 1455 quando, a Magonza, Johannes Gutenberg riuscirà a stampare la prima Bibbia a grande tiratura con la tecnica dei caratteri mobili fusi in piombo. Indubbiamente, un altro assai significativo breaktrough.
Un nuovo Big Bang
Passano altri quattrocento anni finché, da un certo punto in poi, nella prima parte dell’800, accade qualcosa di importante, una sorta di nuovo Big Bang: si scatena una sorta di improvvisa accelerazione che non ha mai smesso di correre, come dimostrano i numeri del contatore di livestat: in poche decadi si passa dalla prima fotografia della storia, al primo messaggio telegrafico, alla prima telefonata, alla prima proiezione cinematografica, all’immissione sul mercato della prima macchina fotografica popolare, alla nascita dei quotidiani e delle loro concessionarie, allo sviluppo della radio e poi della tv. Con la digitalizzazione dei segnali all’inizio degli anni Settanta e la diffusione del personal computer ad opera di Olivetti, Microsoft e Apple, inizia un periodo di ulteriore accelerazione che porterà negli anni Novanta a un ulteriore, nuovo Big Bang, con la nascita del web e di tutte le sue applicazioni, fino ad allora inimmaginabili. A pensarci bene, è come se una lunghissima molla che aveva cominciato a comprimersi molto lentamente decine di migliaia di anni fa oggi si stia comprimendo sempre di più, con effetti addirittura clamorosi. In questo inizio secolo tutto è avvenuto talmente in fretta che molti non sono riusciti a sfruttare appieno le potenzialità delle innovazioni messe in gioco, come dimostrano gli affanni degli editori della carta stampata e della tv generalista, perché il rivoluzionario meccanismo dell’interattività tipico del web ha modificato e sta modificando non solo il modo di fruire dei media e degli audiovisivi, ma anche il modo di consumare, acquistare, informarsi, divertirsi. Ha scritto Seth Godin, uno dei più acuti guru del marketing moderno: “Di colpo, l’imperativo «spendi in tv fino all’ultimo centesimo» non ha più funzionato. E questo fenomeno fa sì che migliaia di uomini di marketing (e le loro marche) con in testa soltanto la televisione siano paralizzati e disorientati… Dipendono dalla massa, ma la massa non c’è più. Nel frattempo le agenzie di pubblicità hanno smesso di essere quella fucina di creatività simile a una bottega rinascimentale e si sono concentrate sull’acquisto degli spazi pubblicitari. Complessivamente c’è stata una corsa a difendere ciascuno un pezzetto della propria rendita di posizione, perdendo la visione di insieme. Inoltre una tecnica già complessa come il direct marketing è stata completamente rivoluzionata dall’ingresso prepotente dell’interattività in ogni attività quotidiana, mentre la stessa reputazione delle imprese dipende sempre di più da ciò che i consumatori e gli utenti dicono delle marche sulla rete. Si è passati dalla comunicazione da uno a tutti a quella da tutti a tutti, mentre è esplosa la moda del virale, che per sua natura è incontrollabile, come ogni virus. A complicare le cose, sta esplodendo un problema di carattere antropologico, perché un crescente numero di consumatori e utenti vive distrattamente, fa fatica a concentrarsi, segue solo ciò che lo diverte. Eppure c’è un modo per riuscire a navigare in un mare così in tempesta e con sempre meno punti di riferimento: nel saggio è spiegato con dovizia di particolari, e con il supporto di case history che si possono vedere all’istante, grazie al fatto che il testo è accompagnato da QR Code che consentono di vedere sul proprio smartphone le campagne e i video in questione.
Cambiano i paradigmi
In estrema sintesi si tratta di praticare un sano “back to basics”. Più le cose si complicano, più occorre tornare a faticare per trovare l’insight giusto, individuare quella Unique selling proposition che è stata troppo presto dimenticata. Sapendo che l’entropìa del sistema sta aumentando sempre di più e la comunicazione virale provoca una pericolosa distorsione nei messaggi, soltanto l’individuazione di un concetto molto forte (pari a un virus dal nucleo potente) potrà consentirgli di arrivare indenne e identico all’ultimo consumatore nonostante i molteplici assaggi. Altro punto importante è abbandonare gli schemi tradizionali. Non esiste più Above the line e Below the line, dipende. Si possono investire cifre enormi nei classici spazi pubblicitari del Superbowl per il lancio di Old Spice (per proseguire poi però con un assai mirato approccio al marketing digitale), oppure si può spendere quasi nulla come Blendtec, indovinando una promozione sul sito aziendale a un tempo fuori di testa ma sempre coerente nel dichiarare la potenza delle lame dei loro frullatori. Si può spendere tutto nell’organizzazione di un flashmob, come ha fatto T-Mobile, fidando nel fatto che i partecipanti si sarebbero incaricati di diffondere all’universo mondo via social network l’emozione vissuta. Ci si può tuffare nel branded entertainement come ha fatto Ikea, pubblicando sul proprio sito oltre 300 puntate da sei minuti di una web-serie ambientata in un punto vendita dell’Illinois, talmente divertente che ad ogni puntata c’erano oltre 1,5 milioni di spettatori ansiosi di vederne il seguito e che dichiaravano su Facebook di rivedere ogni puntata almeno tre volte. Inoltre occorre ripensare radicalmente l’approccio alla CSR, applicata troppo spesso in maniera strumentale. Persino la comunicazione sociale va notevolmente aggiornata (nel mondo ci sono esempi semplicemente fantastici) e occorre tenere d’occhio imprese leader come Procter & Gamble, Dove, Cheerios, Hyundai, Coca Cola, che stanno cominciando assai sapientemente a utilizzare come carrier i valori sociali per promuovere i propri brand e migliorare la propria reputazione.
Obiettivo human satisfaction
Le nuove opportunità offerte dai media digitali ci pongono davanti a un bivio: trasformare consumatori e cittadini in numeri di un data-base, in oggetti di comunicazioni assillanti e invasive, in similautomi eterodiretti da algoritmi, con un linguaggio primordiale sempre più schematico e impoverito, oppure in interlocutori attivi delle imprese, dei media, della società, sempre più dotati di senso critico e padroni della tecnologia a loro disposizione. Se l’obiettivo del marketing smette di essere la mera vendita per puntare più che a una customer satisfaction a una human satisfaction (che significa benessere integrale, per dirla con Farinet), diventa sempre più necessario che le imprese, le agenzie di pubblicità e i media si impegnino nell’applicare seriamente una reale responsabilità sociale, segnatamente nell’accezione di Francesco Perrini, direttore della Csr Unit della Bocconi: «È necessario considerare la CSR non come uno sforzo addizionale, bensì come un comportamento legato alla normale gestione dell’impresa». In caso contrario, il marketing, la pubblicità e il business finiranno per divorare se stessi, mentre algoritmi gestiti da pochi governeranno il mondo come un nuovo opprimente Grande Fratello. E l’Armageddon sarà davvero alle porte.